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Provocazioni climatiche

Dubbi climatici nella testa di alcuni di noi...Sono decenni che si sente parlare di “cambiamenti climatici”. Alle scuole medie, avendo già una forte passione per la meteorologia, i miei temi preferiti erano quelli riguardanti l’effetto serra, tematica già all’epoca di grande attualità (parliamo ahimé dei primi anni '80...) Tuttavia, nell’”allarme climatico” c'è sempre stato qualcosa che non mi ha convinto fino in fondo. E ultimamente sto scoprendo che questa sensazione è condivisa anche da altre persone, anche addetti ai lavori, non inclini ad accettare a occhi chiusi il cosiddetto "pensiero dominante". Tra questi Stefano Starace, consigliere, editorialista, direttore tecnico e tra i soci fondatori dell'associazione Meteoreport, una realtà consolidata nel panorama meteorologico italiano, sostenuta da un gruppo di esperti del settore specializzati a vario titolo in àmbiti professionali connessi alle Scienze della Terra, promuovendo la cultura ambientale, naturalistica e geografica con tanti contributi ed approfondimenti. Con Stefano ho il piacere di condividere idee e contenuti del presente articolo (e che trovate anche su Meteoreport), nel cui titolo il termine "provocazioni" allude al fatto che siamo consapevoli di suscitare più di qualche fastidioso "prurito" (volutamente).

Ma sia chiaro: non abbiamo la minima intenzione di mettere in dubbio che siano in atto modifiche all'assetto atmosferico del nostro pianeta, e che probabilmente le attività umane, condotte in buona o cattiva fede, hanno qualche responsabilità in tutto questo, così come in altri ambiti di natura ecologica. Non siamo però né “negazionisti”, né “complottisti”, tuttavia vogliamo mettere in risalto alcune illogicità e incongruenze, anche da parte di alcuni esperti del settore, spesso troppo presi dal dover per forza argomentare in favore di una certa tesi che hanno ideologicamente ormai sposato. Le recenti posizioni del Governo degli Stati Uniti sull’accordo di Parigi relativo al contenimento delle emissioni di gas serra non sono oggetto della riflessione che ci apprestiamo a fare. Riteniamo tra l’altro che la decisione di Trump, condivisibile o meno, sia da inquadrare in un’ottica politica, non certo votata a negare che le emissioni possano alterare il clima, ma più che altro riguardante il tema: chi deve “pagare il conto” e quando deve pagarlo? E’ giusto che l’Europa e gli USA, che già oggi hanno implementato strumenti molto efficaci per contenere le emissioni, debbano farsi carico di ulteriori sacrifici mentre altri Paesi come la Cina potranno differire di alcuni anni le politiche di contenimento?

Ma come dicevamo l’oggetto di questa riflessione è un altro e riguarda il cambiamento climatico in quanto tale. Il primo dubbio nasce già dalla definizione stessa del problema: “i cambiamenti climatici”. Una definizione che secondo noi, così come viene proposta, è fuorviante, perché fa implicitamente credere che il clima è sempre stato placidamente in un certo modo e che solo ora ha iniziato a cambiare in maniera allarmante. Invece il clima cambia sempre, lo dice la storia e lo dicono gli studi scientifici effettuati coi dati “proxi”, ed è sempre cambiato con rapidità variabile, talvolta molto lentamente e altre volte assai rapidamente (anche di questo vi sono svariate evidenze scientifiche).

Oltre al carattere fuorviante di cui sopra, parlando della terminologia “cambiamenti climatici” (sarebbe preferibile parlare di “evoluzione climatica”), è interessante evidenziare come venga usata letteralmente a sproposito anche nel suo stretto significato. Per capirlo ci sembra logico prima di tutto riportare la definizione di clima presa dall'enciclopedia Treccani: “ll clima è il complesso delle condizioni meteorologiche (elementi del c.: temperatura atmosferica, venti, precipitazioni), che caratterizzano una località o una regione nel corso dell’anno, mediato su un lungo periodo di tempo. Si distingue dal tempo (in senso meteorologico), che è una combinazione solo momentanea degli elementi medesimi. Più rigorosamente, si definisce il clima come la descrizione statistica in termini dei valori medi e della variabilità delle quantità rilevanti (i citati elementi del c.) in un periodo di tempo che va dai mesi alle migliaia o ai milioni di anni. Secondo la definizione dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale, il periodo di media classico è di 30 anni”.

Notiamo in primo luogo che il clima viene definito nell’arco di un periodo di tempo arbitrario (di solito 30 anni); se usassimo un intervallo diverso, evidentemente, otterremo “climi diversi” per la stessa zona. Quello di 30 anni però non è un intervallo scelto a caso, perché rappresenta un periodo sufficientemente lungo da cogliere un congruo numero di variazioni meteorologiche, e nello stesso tempo abbastanza breve, per evitare che venga “appiattita” ogni variazione. Questa scelta fa anche riflettere su un fatto: evidentemente da parte degli addetti ai lavori non è così strano pensare ad un clima che tenda a cambiare con ritmi multi-decennali, altrimenti si sarebbe scelto direttamente un periodo più lungo. Ne segue che per dire che il clima è cambiato (rispetto al trentennio preso come riferimento) occorre dimostrare di essere di fronte ad un “nuovo” clima a sua volta definito su 30 anni. Facciamo un esempio: in questi anni solitamente come periodo trentennale di riferimento viene preso quello che va dal 1971 al 2000. Pertanto, per dire che si è di fronte a un cambiamento climatico, occorre aspettare almeno il 2030 e solo dopo tirare le somme in modo tale da confrontare il clima del trentennio 1971-2000 con il trentennio 2001-2030. Nel frattempo tutto quello che possiamo fare, al più, è osservare un certo “trend climatico”, perché magari per un certo numero di anni si palesano sistematicamente delle caratteristiche diverse dal “solito”. Ma anche se, atteso il trentennio per tirare le somme, dovessimo acclarare la presenza di scostamenti rispetto al trentennio precedente, sarebbe davvero corretto parlare di “clima cambiato”? Non sarebbe più logico valutare in termini quantitativi gli scostamenti? Detta in soldoni: al termine del nuovo trentennio, quanto devono essere cambiati i valori medi di temperatura, precipitazioni, ecc. per poter dire che c'è stato un cambiamento climatico rispetto al trentennio precedente? Supponiamo che nel nuovo trentennio di riferimento (quindi nel presunto “nuovo” clima) le precipitazioni siano diminuite rispetto al trentennio precedente del 5%: questo è un cambiamento climatico? Di quanto devono diminuire o aumentare le precipitazioni, di quanto deve aumentare o diminuire la temperatura per poter dire che il clima è cambiato? Abbiamo il timore che la risposta a questa domanda sia del tutto arbitraria.

In parole povere, facendo riferimento a una specifica località, i parametri atmosferici, essendo molto variabili anche nei valori medi, mal si prestano a cogliere i cambiamenti del clima effettivi e significativi. A nostro avviso, per avere un'indicazione più netta ed evidente di un cambiamento climatico in atto, ciò che sarebbe opportuno prendere come riferimento è soprattutto lo studio degli ecosistemi (flora e fauna) che caratterizza una certa zona. Vogliamo essere un po’ provocatori (del resto è nel già nel titolo), ma ci sembra logico che se in un luogo X il clima è diventato significativamente diverso rispetto a come era prima, anche la vegetazione dovrebbe risultare sensibilmente diversa, come quando si sale di quota in montagna e determinate specie prendono il posto di altre alle diverse quote di altitudine. L’affermazione che segue potrà apparire eccessivamente “conservativa”, tuttavia ci sentiamo di condividerla: in termini di effetti pratici, finché bene o male la vegetazione rimane la stessa, significa che il clima più di tanto non può essere “cambiato”, anche se la temperatura è più alta di 0,5°C e le precipitazioni sono variate di qualche punto percentuale.

E comunque, chi l'ha detto che il clima "giusto" sia quello di "n" anni fa? Ad esempio, se gli inverni si facessero più miti, si consumerà (e si inquinerà) molto di meno per il riscaldamento! Non si capisce perché un clima più caldo debba per forza essere una catastrofe globale. Si citano le possibili variazioni in negativo per alcune aree (desertificazioni, incremento dei livelli del mare) ma si omette di dire che magari in molti altri posti potrebbe andare meglio! Ad esempio, quel grado e spicci in più al Nord Italia in inverno pare abbia ridotto di molto le giornate nebbiose; e non è forse un bene? Per non parlare di aree del globo molto più vaste come la Siberia, oggi interessata dalla tundra e domani potenzialmente area coltivabile o interessata da foreste. Un clima più caldo e un’atmosfera più ricca di CO2 significherebbe anche una maggiore estensione della vegetazione in un processo già oggetto di molti autorevoli studi noto come “global greening”. Francamente facciamo fatica a pensare che un pianeta leggermente più caldo e molto più verde sia così “infernale” come si vuol far credere. Attenzione: non stiamo facendo il tifo per il Global Warming, stiamo solo cercando di vedere anche altri aspetti che a nostro avviso sono sacrosanti, ma di cui non si parla mai.

Vogliamo anche solamente accennare ad alcuni esempi storici neanche tanto lontani nel tempo?
- Il Sahara. Il clima del Sahara ha subito molte e grandi variazioni e allo stato attuale come tutti sappiamo è nel suo periodo secco, ma non è sempre stato così. Durante l'ultimo periodo glaciale era ancora più grande di quello che è oggi, estendendosi a sud oltre i suoi confini attuali, ma la fine del periodo glaciale ha portato più pioggia, circa dall'8000 al 6000 a.C.
Ulteriori approfondimenti e riferimenti: https://it.wikipedia.org/wiki/Deserto_del_Sahara#Storia
- La Groenlandia: la parola italiana Groenlandia deriva direttamente da quella scandinava originaria, Grønland, che significa “Terra verde”. Benché oggi possa sembrare un nome inappropriato per un'enorme isola ricoperta da ghiacci per l'83% del suo territorio, ai tempi di Erik il Rosso (vissuto intorno all'anno 1000, tempi che coincidono con il “Periodo caldo medievale”) la Groenlandia era più verde e meno ghiacciata. A testimoniare questo periodo più caldo si sono trovate anche tracce di forme di agricoltura sviluppatesi soprattutto nella parte sud dell'isola.
Ulteriori approfondimenti e riferimenti: https://it.wikipedia.org/wiki/Groenlandia

Sappiamo benissimo che le ricostruzioni storiche (e climatiche) sono sempre delicate, ma questo è vero per tutti, negazionisti, complottisti, eccetera. Secondo alcuni il riscaldamento medievale (detto anche Optimum Climatico Medievale, che sicuramente interessò l'Europa per circa 500 anni dal IX al XIV secolo) è stato un fatto circoscritto al Nord-Atlantico e non globale. E allora? A parte che è difficile immaginare un cambiamento così importante in una zona del globo, senza che accada niente sul resto del Pianeta, ma stiamo parlando comunque di un cambiamento climatico epocale, un periodo in cui le notizie di inverni rigidi praticamente scompaiono dalle cronache, un cambiamento con importanti conseguenze economiche, ma anche di grande benessere per molte popolazioni, come testimoniano ad esempio tantissimi resti di insediamenti. Naturalmente ci sono state alterne vicende, da zona a zona, ma caratterizzate comunque da un aumento medio delle temperature che sono giunte a livelli molto più elevati di quelli odierni. In Inghilterra prosperò addirittura la coltura della vite, con produzione abbondante di vino sulla parte meridionale e fino al 53° parallelo.
Per approfondimenti, con relativi riferimenti bibliografici: https://it.wikipedia.org/wiki/Periodo_caldo_medievale

Tra l’altro nessuno si chiede quali problemi porterebbe invece un "cambiamento climatico" indirizzato verso il freddo! Più inquinamento da riscaldamento, abbassamento del livello dei mari (e quindi le navi che fanno?), meno vegetazione, ecc. Supponiamo che le attività antropiche effettivamente abbiano incrementato di 1°C la temperatura media del globo invertendo un trend che magari era destinato al freddo. Non sarebbe un bene? Ma perché dobbiamo essere schiavi di questo dogma secondo il quale "freddo è bello"? Noi ce le faremmo vivere davvero, al freddo come 200 anni fa, certe persone! E ricordiamo che negli anni '70 si temeva un "Global Cooling" e si dava la colpa al pulviscolo atmosferico che attenuava i raggi solari...
Ovviamente l’obiezione a questo ragionamento è quella classica del “principio di precauzione”: non sapendo esattamente cosa comporterebbe alterare un equilibrio naturale, meglio evitare di farlo. Può essere vero ma fino ad un certo punto: vorremmo solo a tal riguardo invitare alla cautela ricordando che tale principio, se fosse stato applicato dall’uomo primitivo al “fuoco” nel giorno in cui un fulmine colpì un albero facendolo andare in fiamme, noi oggi vivremmo ancora probabilmente nelle caverne. L’approccio giusto (e più scientifico) a nostro avviso non è quello di considerare “male” tutto ciò che è “artificiale”, ma di valutare asetticamente e secondo il rigore scientifico ogni conseguenza di determinati comportamenti.

Restando in tema “climate change”, una delle conseguenze secondo i più allarmati è l’incremento del numero di eventi estremi e della loro intensità. Bene, intanto alcune maggiori frequenze, come percezione, sono dovute al fatto che rispetto al passato abbiamo molte più osservazioni disponibili, anche solo per il fatto che c'è un sacco di gente col telefonino che fa foto e poi pubblica su internet (spesso foto anche false o riferite ad altri avvenimenti...). Sul fronte della conta dei danni, invece, si dà la colpa al clima che cambia quando invece spesso la responsabilità di certe catastrofi è da ricercare nell’incremento demografico e nell’uso scellerato del suolo! Tutte le statistiche (anche quelle serie) sugli eventi estremi sono affette da questi errori, anche perché molte di esse utilizzano i dati delle assicurazioni relativi ai risarcimenti dei danni. Chissà nell’antica Roma quanto pagavano le assicurazioni per i danni!
Pochissimi sanno che nell’epoca storica recente il più terribile uragano in termini di estensione delle aree danneggiate e di vittime (oltre 8000) si verificò... nel 1900! Katrina, che comunque avvenne nel 2005, ne fece meno di 2000 colpendo un’area che rispetto all’uragano del 1900 era notevolmente più urbanizzata e popolosa. Ma a parte questo episodio, il dato importante è che analizzando i parametri meteorologici e non i danni, al momento in cui scriviamo negli ultimi 5 anni a livello globale non si è registrato alcun aumento degli eventi puntuali estremi! Molti studiosi inoltre non condividono il ragionamento secondo il quale un clima globalmente più caldo debba per forza generare eventi più distruttivi. L’incremento di evaporazione potrebbe infatti favorire una più ampia diffusione di piogge e minori contrasti globali nella grande circolazione. Non diamo naturalmente nulla per scontato, tuttavia non ci sono certezze in merito al potenziale incremento di eventi estremi, ma solo studi e supposizioni, molte delle quali troppo sbilanciate ideologicamente nella stessa direzione “allarmista”. Vi suggeriamo alcune considerazioni sugli uragani atlantici svolte qui.

A proposito di “percezione”, facciamo presente che Giacomo Leopardi nello Zibaldone già sosteneva che << Qui in Italia è voce e querela comune, che i mezzi tempi non vi son piu’ >>, cioè le mezze stagioni… E ancora Leopardi, in Pensieri, XXXIX, riportando che già Baldassare Castiglione ai suoi tempi se ne lamentava:<< Io credo che ognuno si ricordi avere udito da' suoi vecchi più volte, come mi ricordo io da' miei, che le annate sono divenute più fredde che non erano, e gl’inverni più lunghi... >>
Per approfondimenti su questo n-esimo luogo comune: http://www.centrometeo.com/articoli-reportage-approfondimenti/climatologia/4285-mezze-stagioni

Si dice che non è tanto il cambiamento in sé, quanto la rapidità di tale cambiamento: volete dire che dovremmo avere il tempo di spostare le città costiere più all'interno?! Perché se ci sarà l'innalzamento dei mari che inonderà tutto, la velocità con cui ciò accadrà conta veramente poco... E gli ecosistemi? Beh in qualunque cambiamento, rapido o lento che sia, ci saranno specie che ne beneficeranno e altre no... come è sempre stato.

Parliamo di frequenza degli eventi estremi. Ma scusate: se in un dato luogo ad esempio gli eventi alluvionali cominciano a diventare chessò ventennali anziché trentennali, cosa cambia? Non bisogna lo stesso costruire opportunamente e prepararsi adeguatamente per farne fronte? Anzi forse se accadano più spesso è la volta buona che più gente si sensibilizza al problema... Dice ma gli eventi sono anche più estremi... D'accordo, ma se erano già "estremi" prima cosa vuol dire "più estremi"? Anche qui: dobbiamo comunque essere preparati, perché la soglia di "intensità" era comunque già elevata. E quando si costruisce qualcosa a dovere, non lo si fa per sopportare carichi e situazioni "al limite", ma molto di più. Ad esempio se una struttura deve sopportare un vento che normalmente arriva al massimo a 100 km/h, la si progetta per reggere comunque una velocità di almeno 3 volte tanto.

Sulla quantità di pioggia: ci sono zone dove anche se piove di meno non è un problema per l'approvvigionamento idrico, perché non è detto che la quantità media annua sia quella minima indispensabile. Se bastano 600 mm/anno, quando ne faceva 700 o 800 a che serviva? Ma poi: importiamo il gas con tubature sotterranee da migliaia di km di distanza, perché non rendere potabile l'acqua di mare e distribuirla all'interno, se necessario? Oggi si può fare...
Sui ghiacciai: si ritiene che il loro ritiro è un problema. Ma insomma qual è il loro livello giusto? Più ghiacciai di così? Di meno? Né più né meno? Secondo alcuni uno dei problemi starebbe nell'alimentazione delle falde acquifere: beh un po' il ghiaccio deve sciogliersi altrimenti come fanno le falde ad essere alimentate? Dice beh ma se i ghiacciai spariscono poi è finita... Ah sì? E dove le montagne non ci sono (o ci sono, ma non ci sono i ghiacciai o sono una quantità piccolissima, vedi gli Appennini) come fanno?

Insomma capite che le cose vanno viste con mente più aperta? Ci sono pro e contro, non solo contro.

Parliamo invece adesso di strumenti e tecniche di rilevamento. Ma davvero vogliamo confrontare le rilevazioni odierne con le temperature registrate 80 o 100 anni fa con chissà quali termometri e in chissà quali condizioni? Ma che ne sappiamo che accuratezza poteva avere un termometro di decenni fa? Manutenuto come? Da chi? E fa sorridere leggere le affermazioni del tipo “anno più caldo dall’inizio delle rilevazioni”, inizio che si può definire un battito di ciglia fa. Quante misure 30 anni fa erano prese con sensori su suoli erbosi o comunque non cementati che oggi sono invece circondati da edifici o asfalto? Qui si possono trovare altri spunti di riflessione sul tema delle temperature: http://www.centrometeo.com/articoli-reportage-approfondimenti/fisica-atmosferica/4611-stazioni-meteo-temperature-massime-esagerate

Ci restano dei dubbi sulle modalità con cui tale riscaldamento viene calcolato e dato per certo fino al decimo di grado! Si parla di “temperatura globale”, ma che cos’è esattamente e come viene calcolata? In questo approfondimento che risale a qualche anno fa ci sono diversi spunti di riflessione in merito: http://www.arezzometeo.com/2011/la-temperatura-globale-a-cura-di-stefano-starace

In conclusione, come chiarito nelle premesse, non abbiamo la minima intenzione di mettere in dubbio il trend votato al riscaldamento globale, lo ribadiamo per chi, leggendo, non lo avesse capito o fa orecchie da mercante. Tutto questo ragionamento non è per negare il riscaldamento globale, che peraltro si può dedurre anche da altre grandezze (ghiacciai ad esempio), ma per cercare di capire con attenzione se la quantificazione dello stesso sia effettivamente corretta, se siano state tenute in conto le dovute conseguenze positive, oltre che quelle negative, e come tali conseguenze potrebbero (o dovrebbero) essere interpretate in relazione allo sviluppo della specie umana e all’evoluzione della vita sul pianeta. Soprattutto l’auspicio è quello di una maggior prudenza quando si legge di scenari futuri catastrofici (basati peraltro su modelli estremamente approssimativi e semplificati) o quando si dice "anno più caldo di sempre" o "temperatura record qui o lì...".

Il dibattito sui cambiamenti climatici è ormai totalmente "polarizzato", al punto che è facilissimo essere accusati di "negazionismo", "ignoranza scientifica" o peggio "complottismo" nel momento in cui si osa sollevare qualche perplessità sulla teoria dominante. Chi mette in dubbio la teoria antropica, anche solo in parte, è ormai messo sullo stesso piano di chi crede alle "scie chimiche" oppure alle correnti "anti-vacciniste"; addirittura abbiamo letto che chi osa negare l'eziologia antropica nei recenti cambiamenti del clima è paragonabile a chi ancora oggi crede che la terra sia piatta. Bene, noi non accettiamo minimamente tale atteggiamento anti scientifico. Anche perché il punto non è tanto se il clima cambia o meno, e nemmeno tanto quale sia la causa o le cause. Il punto vero è: in che direzione cambia? Con quale entità? Chi se ne avvantaggia e chi se ne svantaggia? Perché che il clima cambi non è certo una novità, altrimenti scopriamo l'acqua calda. Ma che cambi in meglio o in peggio, a nostro modesto avviso, è assolutamente soggettivo e il nostro auspicio è che migliori l'approccio mentale al tema, anche da parte degli addetti ai lavori.

Fabio F.Gervasi e Stefano Starace